martedì 30 novembre 2010
Se lo Stato vuol fare il “privato datore di lavoro” dovrebbe anche poterselo permettere. Per precarizzare ed irregimentare ancora di più i pubblici dipendenti, passando da una fase di “privatizzazione consensuale contrattata” ad una di “privatizzazione verticistica manageriale”, occorre sia far piazza pulita dei contratti vigenti ma anche sostituirli con altri (prima di arrivare ad eliminarli del tutto, ma con calma...). Però questo passaggio è molto delicato perchè espone il datore di lavoro pubblico (come ogni datore di lavoro privato sa bene) a rivendicazioni di varia natura.
Vediamo la situazione venutasi a creare a seguito della riforma del pubblico impiego al tempo della crisi.
Il d.lgs. n. 150/ 2009, meglio noto come decreto “Brunetta”, ha innovato profondamente il sistema delle fonti del diritto nel pubblico impiego operando un'inversione a 360° rispetto all'impostazione originaria che vedeva nel sistema della contrattazione un pilastro essenziale del processo di privatizzazione.
In particolare, proprio a proposito della contrattazione collettiva e delle materie ad essa demandate, di cui si occupa il capo IV agli artt. 53 ss., si stabilisce l'espulsione dall'ambito pattizio delle seguenti:
l'organizzazione degli uffici;
quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell'art. 9 T.U.P.I. (informazione su organizzazione e gestione);
quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17 T.U.P.I. (l'esercizio dei poteri del privato datore di lavoro);
la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali;
quelle di cui all'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (controversie di lavoro).
Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio (la c.d. performance), della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva e' consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge.
L'art. 40 comma 3 quinquies del T.U.P.I. (introdotto dal decreto Brunetta) dispone poi che “Le pubbliche amministrazioni non possono in ogni caso sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti risultanti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinano materie non espressamente delegate a tale livello negoziale ovvero che comportano oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. Nei casi di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge, le clausole sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile. In caso di accertato superamento di vincoli finanziari da parte delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, del Dipartimento della funzione pubblica o del Ministero dell'economia e delle finanze e' fatto altresì obbligo di recupero nell'ambito della sessione negoziale successiva. Le disposizioni del presente comma trovano applicazione a decorrere dai contratti sottoscritti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”.
Il decreto Brunetta contiene poi una norma di chiusura e adeguamento, l' art. 65, il quale stabilisce che “ 1. Entro il 31 dicembre 2010, le parti adeguano i contratti collettivi integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto alle disposizioni riguardanti la definizione degli ambiti riservati, rispettivamente, alla contrattazione collettiva e alla legge, nonche' a quanto previsto dalle disposizioni del Titolo III del presente decreto.
2. In caso di mancato adeguamento ai sensi del comma 1, i contratti collettivi integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto cessano la loro efficacia dal 1° gennaio 2011 e non sono ulteriormente applicabili”.
Stando così le cose da taluni si è sostenuto che i dirigenti degli uffici sarebbero già da subito autorizzati (anzi, obbligati) a procedere in via unilaterale (senza contrattazione) alla riorganizzazione e alla gestione del lavoro dando piena applicazione ai nuovi principi stabiliti dalla riforma e sintetizzati all'art.1, comma 2 così:”Le disposizioni del presente decreto assicurano una migliore organizzazione del lavoro, il rispetto degli ambiti riservati rispettivamente alla legge e alla contrattazione collettiva, elevati standard qualitativi ed economici delle funzioni e dei servizi, l'incentivazione della qualità della prestazione lavorativa, la selettività e la concorsualità nelle progressioni di carriera, il riconoscimento di meriti e demeriti, la selettività e la valorizzazione delle capacità e dei risultati ai fini degli incarichi dirigenziali, il rafforzamento dell'autonomia, dei poteri e della responsabilità della dirigenza, l'incremento dell'efficienza del lavoro pubblico ed il contrasto alla scarsa produttività e all'assenteismo, nonche' la trasparenza dell'operato delle amministrazioni pubbliche anche a garanzia della legalità”.
Per quanto riguarda lo specifico ambito della scuola occorre richiamare anche l'art. 74 che al comma 5 demanda ad un successivo D.P.C.M. la determinazione dei limiti e delle modalità di applicazione delle disposizioni di cui ai titoli II e III per il personale docente della scuola.
Il MIUR ha poi a sua volta sollevato il problema dell'applicazione pratica all'organizzazione e al personale scolastico delle norme del decreto Brunetta, formulando apposito quesito al dipartimento della Funzione Pubblica e stabilendo che le procedure di utilizzo del personale si svolgano nell'ambito del quadro normativo e contrattuale vigente alfine di assicurare il corretto avvio dell'anno scolastico (v. nota prot. n° 8578 del 23.9.2010).
A tale situazione d'incertezza, fonte di contrasti fra dirigenti e sindacati, ha dato ulteriore impulso un' interpretazione quanto meno affrettata e parziale del decreto Brunetta fornita dal dipartimento della Funzione Pubblica (v. circolare n°7 del 13.5.2010) in cui si sostiene che “in ogni caso, le norme che dispongono un termine finale per l’adeguamento (l'art. 65 n.d.r.) non valgono ovviamente a sanare le eventuali illegittimità contenute nei contratti integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009 e maturate sulla base dei principi previgenti, ad esempio con riferimento all’erogazione della retribuzione di produttività in modo non selettivo o indifferenziato o sulla base di automatismi ovvero in relazione alla regolazione con il contratto integrativo di materie non espressamente devolute dal CCNL o, a maggior ragione, disciplinanti materie escluse dalla contrattazione collettiva o, ancora, alla violazione del vincolo di bilancio e delle regole di finanziamento dei fondi di amministrazione.”
Tale orientamento (espresso direttamente...dal Ministro Brunetta!) si basa sulla mera data di entrata in vigore del decreto, ossia il 15.11.09: i contratti stipulati prima di tale data resterebbero applicabili mentre quelli stipulati dopo lo sarebbero solo per le parti non riservate alla legge ordinaria, fermo restando che tutti i contratti devono essere adeguati entro il 31.12.10 pena la perdita di qualunque validità ed efficacia dal giorno successivo.
La ricostruzione appare poco sensata sia sul piano logico che giuridico. Anche distinguere fra contratti stipulati prima (che rimangono operativi in toto) e dopo l'entrata in vigore del decreto (inapplicabili per le parti ora riservate alla legge) non risulta corretto.
Ma soprattutto è il decreto stesso che pone un limite ben preciso alle parti contraenti per procedere all'adeguamento di tutti i contratti ancora vigenti, senza distinzione alcuna. L'art. 65 è assolutamente chiaro ed incontestabile sul punto. Tale norma porta quindi ad escludere qualunque ipotesi di retroattività del decreto Brunetta o di perdita di efficacia automatica delle parti relative a materie non più oggetto di contrattazione.
Ciò posto sarebbe quindi necessario che nelle singole amministrazioni entro fine 2010 venissero intraprese, ad iniziativa “della parte più diligente”, le trattative per giungere all'adeguamento dei contratti in corso e la parte più diligente dovrebbe essere ovviamente quella sindacale dal momento che l'inerzia avrebbe per l'amministrazione il gradito effetto di far scadere il termine per l'adeguamento, lasciando quindi mano libera all' Amministrazione, ora divenuta “privato datore di lavoro”, di procedere come meglio crede. Poiché quindi la norma impone un obbligo di attivazione, un facere, a carico delle parti contraenti, risulta indispensabile mettere in mora la parte inadempiente la quale, perseverando nell'inerzia o peggio nell'opposizione a trattare o ancora procedendo in modo unilaterale, certamente si renderebbe responsabile di condotta antisindacale.
Occorre però a questo punto tener conto dell'art. 9, comma 17, della c.d. “manovrina estiva” (L. n. 122/ 2010) che ha previsto il blocco triennale dei contratti. La norma infatti prevede che “ 17. Non si dà luogo, senza possibilità di recupero, alle procedure contrattuali e negoziali relative al triennio 2010-2012 del personale di cui all'articolo 2, comma 2 e articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni. È fatta salva l'erogazione dell'indennità di vacanza contrattuale nelle misure previste a decorrere dall'anno 2010 in applicazione dell'articolo 2, comma 35, della legge 22 dicembre 2008, n. 203”. In queste condizioni è quindi impossibile qualunque rinnovo o adeguamento e il procedimento delineato dal decreto Brunetta diviene di fatto inapplicabile.
Da ciò la necessità di capire come regolarsi dopo l'1.1.2011 ossia da quando i contratti integrativi vigenti non adeguati dovrebbero perdere efficacia.
La norma parla di “mancato adeguamento ai sensi del comma 1” ossia entro il 31.12.10 ad iniziativa di parte. Poiché invece il mancato adeguamento è ora determinato da una disposizione di legge emanata successivamente, deve ritenersi che anche tali contratti rimangano del tutto operativi (quando meno in base al principio dell'ultrattività degli effetti del contratto). In concreto il blocco triennale della contrattazione cristallizza la situazione di fatto esistente al 30.7.10 e fa sopravvivere quanto meno sino al 2012 tutti i contratti esistenti nell'attuale formulazione, anche con riferimento alle materie riservate dal decreto Brunetta alla legge. In concreto, per ragioni di risparmio di spesa lo Stato “privato datore di lavoro” deve ancora pazientare un po'.
Alessio Ariotto, Retelegale.net
sabato 12 giugno 2010
Alcuni compagni di Terni segnalano l'iniziativa della locale Questura (ma a quanto consta non è la sola, è accaduto anche a Brescia) di pervenire prossimamente alla comunicazione di “avvisi orali” nei confronti di alcuni di loro.
L'istituto viene giustamente tacciato di “fascismo” per la sua innegabile valenza intimidatoria. L'avviso orale ex art. 3, L. n. 1423/ 54 novellato è infatti nulla più che una minaccia ai sensi dell'art. 612 c.p. (“chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito...”) scriminata da una norma di legge che invece la consente.
In concreto si tratta di una comunicazione, sovente scritta (!), con la quale il questore invita (suggerisce, consiglia, cerca di indurre) qualcuno a cambiare condotta, sulla base di una valutazione discrezionale dell'ufficio, sempre però basata su “elementi di fatto”, concetto giuridico estremamente scivoloso (diciamo pure viscido) che può configurarsi anche semplicemente in una ordinaria informativa Digos.
Il TAR Trento (sentenza n° 316/ 04) ha chiarito che l'avviso orale deve essere sempre eseguito oralmente e personalmente da parte del Questore. L'atto non può quindi essere delegato, come spesso succede.
L'avviso orale – che ha sostituito la precedente diffida ( a sua volta introdotta dopo la declaratoria di incostituzionalità dei “tre porcellini” ammonizione, foglio di via e confino) mantenendone però tutte le caratteristiche fattuali onde consentirne da parte del Questore il medesimo utilizzo a scopo preventivo/repressivo – costituisce presupposto necessario per la successiva emanazione di misure di prevenzione (altro bell'istituto di democrazia diretta). Questo simpatico marchingegno giuridico (avviso orale+ misura di sicurezza+ reato per la sua eventuale violazione) ha ben poco da spartire con le garanzie costituzionali in tema di responsabilità penale, certezza della pena e diritto di difesa ma è del tutto coerente ad un ordinamento giuridico che riesce a salvare dall'eccezione di costituzionalità i Centri d'Internamento Temporaneo (salvo poi scandalizzarsi per le leggi ad personam...). Si tratta di un tipico istituto giuridico da Stato di Polizia.
Una recente sentenza del Tar Campania (Sez. V, 11 ottobre 2007 / 17 ottobre 2007, n. 9587 (Pres. est. Onorato) consente di esaminare l'istituto un po' più da vicino e nella sua pratica attuazione.
Afferma il Tribunale che “l' avviso orale a tenere una condotta conforme alla legge - che rappresenta, invero, la misura più tenue tra quelle previste dalla legge n. 1423/1956 e costituisce la condicio sine qua non per l'eventuale applicazione delle misure di cui alla stessa legge - ben può essere motivato con riferimento anche a semplici sospetti a carico del destinatario, purché basati su elementi di fatto che ne facciano ragionevolmente ritenere l'appartenenza ad una delle menzionate categorie ex art. 1 L. 1423/1956.
Infatti, presupposto per l'emanazione dell'avviso in questione non è l'esistenza, secondo quanto sopra precisato, di "specifiche prove" sulla commissione di reati, essendo sufficienti, appunto, anche meri sospetti sugli elementi di fatto che, secondo la regola della logica e della ragionevolezza, inducano la competente Amministrazione a ritenere la sussistenza di quelle condizioni di pericolosità sociale che possano dar luogo all'applicazione di misure di prevenzione.
In altri termini, circa l'applicabilità da parte del Questore dell'avviso orale previsto dall'art. 4 L. 1423/1956, il giudizio sulla pericolosità sociale del soggetto avvisato non richiede la commissione di specifici reati, essendo sufficiente che l'Autorità di polizia sospetti semplicemente della presenza di elementi tali da ritenere la configurabilità, nel soggetto destinatario dell'avviso, di una personalità propensa a seguire particolari comportamenti antigiuridici”.
Le categorie di soggetti nei confronti dei quali la legge consente l'avviso orale sono le seguenti:

- coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi;

- coloro, che per la condotta ed il tenore di vita, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;
- coloro che, per il loro comportamento, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
A tali requisiti legali, ritenuti di per sé indice di pericolosità sociale meritevole di interesse preventivo da parte dei soggetti preposti alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, la giurisprudenza ha poi aggiunto quello della attualità delle condotte (da ultimo vedasi Trib. Monza – sez. misure di prevenzione - 12.3.10, in www.camerapenalemonza.it).
L'uso dell'avviso orale nei confronti di militanti antagonisti (variamente inteso il concetto e comprensivo quindi di tutti coloro che manifestano contro il sistema economico/ sociale capitalista/neoliberista) risulta francamente abnorme (la pericolosità sociale è concetto strettamente correlato all'attività criminosa in senso stretto) e quindi tale da potersi considerare un abuso. L'abuso del questore, che è pubblico ufficiale, non è atto indifferente, bensì produttivo di responsabilità penale ai sensi dell'art. 323c.p. configurando il reato di abuso d'ufficio.
Se infatti l'avviso orale viene pronunciato nei confronti di qualcuno che: a) prima ipotesi: non possa ritenersi abitualmente dedito a traffici illeciti; b) seconda ipotesi: non risulti avere una condotta o un tenore di vita basato su proventi di attività delittuose; c) terza ipotesi: non tenga un comportamento che faccia ritenere esser dedito alla commissione di reati verso minorenni, sanità, sicurezza e tranquillità sociale, si è di fronte ad un uso distorto e strumentale dell'istituto.
E' infatti evidente come il legislatore abbia inteso tenere sotto controllo quegli ambiti in cui il delitto, inteso come condotta antisociale per eccellenza, si sostanzia in una serie di comportamenti esteriori (appunto condotte, comportamenti, tenore di vita) tali da mettere l'autorità di p.s. sull'avviso. Ma la militanza politico/ sindacale, quand'anche condotta con metodi energici, non potrà mai costituire ragione sufficiente a giustificare l'avviso orale in assenza di altri elementi di fatto attuali riconducibili alle ipotesi previste dalla norma. Pare francamente improbabile (e certamente deprecabile dovesse capitare) che la militanza antagonista sfoci o possa sfociare in traffici illeciti o consentire un tenore di vita in qualche modo basato su proventi da delitto. Più delicata invece la valutazione con riferimento alla terza ipotesi, volutamente più generica e fumosa. Potrebbe infatti comprendere qualunque tipo di reato in quanto la delimitazione normativa che fa riferimento al soggetto o al bene giuridico offeso (minori, sanità, sicurezza e tranquillità sociale) è molto ampia. In particolare, potendosi escludere i reati nei confronti dei minori e della sanità, sono i concetti di sicurezza e soprattutto di tranquillità pubblica a costituire indubbi rischi e possibili strade per abusi dell'avviso orale. E' infatti ovvio che l'attività politico/ sindacale certamente turbi la tranquillità sociale (anzi, ha proprio quello scopo sovente), si pensi allo sciopero ma anche alle altre forme di conflitto lecito (manifestazione, presidio, volantinaggio) ma anche illecito (affissioni abusive, sit in, blocchi stradali, scontri con le forze dell'ordine). Ma è altrettanto vero che tale turbamento, essendo connaturato all'attività stessa che è non solo ammessa ma tutelata e favorita dall'ordinamento e dalla Costituzione, non può certo essere considerata alla stregua di un qualunque delitto comune e comunque certamente non in uno stato che si reputa democratico. Rientra infatti (o dovrebbe rientrare) nella normalità di una democrazia partecipativa in cui le tensioni e le lotte sociali possono anche sfociare in episodi di forte tensione e scontro ma che non possono per ciò solo essere impediti con la repressione, tanto meno preventiva, dovendosi invece accettare anche i rischi della dialettica democratica comunque sempre preferibili ad ogni forma di Stato di Polizia.
Quanto alla sicurezza è invece indubbio che si tratti di un parametro di riferimento delle condotte dei cittadini che l'ordinamento ha il dovere di considerare, ma anche in questo caso l'eventuale pericolosità sociale per la sicurezza non potrà ricavarsi solo ed esclusivamente dalle condotte di militanza politico/ sindacale siano esse lecite ma anche illecite (chiaramente i comportamenti illeciti saranno perseguiti in quanto tali). La motivazione politico/ sindacale, purchè genuina e non strumentale alla commissione di altri delitti, nel nostro ordinamento costituzionale, è di per sé incompatibile con qualunque avviso dell'autorità di p.s. E' incompatibile essendo un diritto di libertà fondamentale. E' corretto quindi affermare che il questore non si può permettere (non ne ha l'autorità) di procedere ad avviso orale nei confronti di chi svolge attività politico/ sindacale in quanto l'ordinamento deve sempre far prevalere la tutela dei diritti, che sono individuali e collettivi, alla libertà e attività sindacale, alla parola e all'opinione, a manifestare e a criticare le istituzioni e le loro scelte. Qualunque avviso orale rivolto a soggetti che esercitano questi diritti è un abuso e come tale deve essere sempre denunciato e perseguito.
Altra cosa sono i singoli reati commessi nello svolgimento delle attività di militanza politico/ sindacale, che l'ordinamento persegue in quanto tali. Com'è noto esistono anche specifiche fattispecie associative fatte apposta per reprimere proprio l'attività politico/ sindacale svolta al di fuori dei limiti posti dalla legge penale che ricomprendono persino condotte singolarmente e normalmente lecite. Si tratta di delitti introdotti nel periodo fascista e sinora sempre salvati, con alcune inevitabili precisazioni per renderli meno indigesti, dalla Corte Costituzionale ma il cui utilizzo da parte delle procure è stato sinora abbastanza maldestro; ciò purtroppo non esclude che la loro esistenza costituisca un serio pericolo sociale (questo sì) per la libertà di svolgimento dell'attività politico/ sindacale e tanto più per il dissenso antagonista.
Alessio Ariotto, Retelegale Torino
venerdì 12 febbraio 2010
In attesa dell'ennesima proroga dell'esecuzione degli sfratti il dramma dei senza casa si fa di giorno in giorno più grave . Ormai la situazione è tale da sollecitare iniziative urgenti ed emergenziali. La situazione è nota: centinaia di migliaia di persone non possono più permettersi di pagare affitti e mutui e vengono cacciate mentre altrettanti alloggi rimangono vuoti. Il mercato immobiliare ha trovato un suo equilibrio a danno dei redditi bassi, che aumentano sempre di più a causa della crisi. Se così non fosse gli alloggi sfitti sarebbero molti meno.
Questo dramma non trova soluzione, come sarebbe auspicabile e prevedibile, nell'edilizia pubblica: non si costruiscono abbastanza case popolari e si abbandona sovente al degrado il patrimonio esistente, sicuramente per mancanza di fondi ma anche per una evidente volontà politica asservita al libero mercato.
Da più parti s'invocano quindi provvedimenti drastici, quanto meno per sopperire alla situazione contingente per poi passare ad una diversa gestione del bisogno abitativo. Nell'inerzia del legislatore è l'autorità amministrativa a doversi far carico della responsabilità, anche con scelte coraggiose, che però sono rarissime.
In questo senso lo strumento legale più efficace è certamente la requisizione degli immobili vuoti o inutilizzati, siano essi privati o pubblici.
La normativa in proposito e l'elaborazione giurisprudenziale recente non autorizzano però ad eccessivo ottimismo, ancorate come sono al concetto di “grave necessità pubblica” che in Italia corrisponde da sempre a “catastrofe naturale”, ovverosia terremoti, alluvioni e altri disastri.
In realtà il dato normativo di riferimento, l'art. 7, L. n. 2248/1865, all. E (non è un errore, è proprio una legge del 1865!), dispone che “allorchè per grave necessità pubblica l'Autorità amministrativa debba senza indugio disporre della proprietà privata...essa provvederà con decreto motivato, sempre però senza pregiudizio dei diritti delle parti”. Trattasi quindi di norma “in bianco” ad amplissima discrezionalità.
Chiaramente la disposizione, emanata ben prima della Costituzione, ha dovuto subire non pochi interventi di interpretazione e di aggiornamento da parte della giurisprudenza per essere adattata in particolare all'art. 42 della Carta del 1948, ove si afferma che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti e che può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale.
La competenza a requisire è pacificamente in capo al Prefetto e solo in caso di inerzia di questi può essere esercitata dal Sindaco.
In particolare è stato poi affermato che il potere di ordinanza ex art. 7, L. n. 2248/ 1865, all. E debba altresì rispettare, per quanto riguarda l'esercizio da parte del Sindaco, i requisiti previsti dall'art. 54 T.U.E.L. (art. 38, comma 2, L. n. 142/ 90) che al comma 4 dispone che “ Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità' pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione”.
La preventiva comunicazione al Prefetto farebbe peraltro propendere per un potere (dovere) esclusivo del Sindaco e semmai concorrente con quello del Prefetto.
E' quindi evidente che il problema che si pone è quello di poter inquadrare l'emergenza sfratti nella fattispecie prevista dal combinato disposto delle due norme e che richiede la ricorrenza di una grave necessità pubblica da prevenire o eliminare qualora minacci l'incolumità e la sicurezza urbana.
Sia i TAR che la Cassazione Penale hanno sostenuto che le esigenze abitative di nuclei familiari colpiti da sfratto non può ritenersi né eccezionale né tanto meno imprevedibile essendo invece la regola in ogni contesto urbano a differenza ad esempio di un crollo (vedasi TAR Roma 3534/04; TAR Catania 1154/ 04; Cass. Pen., n. 38259/ 07).
La prospettazione non convince, essendo fondata com'è solo sull'id quod plerumque accidit, di per sé inidoneo a descrivere i limiti di un potere statale. Paradossalmente poi lo strumento della requisizione, postulando l'esistenza di una situazione di urgenza o di emergenza non diversamente risolvibile, potrebbe legittimare condotte generalizzate di occupazione illecita o di morosità colpevole tali da creare i presupposti di un pericolo persino per l'ordine pubblico in caso di sgomberi e imporre quindi, sotto ricatto, l'adozione del provvedimento di requisizione.
E' quindi necessario ancorare lo strumento ad una lettura più coerente al precetto costituzionale che soprattutto tenga conto, come pare inevitabile per dare corretta applicazione alla regola della funzione sociale della proprietà privata, delle condizioni del mercato, dello stato dell'economia nazionale ed internazionale, del costo della vita, individuando così quelle condizioni di urgenza non diversamente risolvibili se non con la (temporanea e salvo indennizzo) compressione della proprietà privata.
Alessio Ariotto, Retelegale Torino
venerdì 8 gennaio 2010
La crisi ha fatto aumentare i pignoramenti immobiliari. Non sempre però il danno lo subisce solo il pignorato ma, a quanto pare, anche chi ha avuto la sfortuna di stipulare un contratto di locazione con qualcuno che poi subisce il pignoramento.
Fermo restando che un contratto di locazione stipulato dopo il pignoramento non è opponibile al creditore procedente, anche un contratto stipulato prima della trascrizione del pignoramento non garantisce del tutto al conduttore la possibilità di vivere tranquillo nella sua abitazione.
Pacifico in giurisprudenza che il contratto di locazione in corso alla data del pignoramento mantenga validità sino alla scadenza, ma che non possa aversi tacita riconduzione (ossia rinnovo automatico in assenza di disdetta nei termini) ma solo l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione a proseguire la locazione, parrebbe però ovvio prevedere che in assenza di autorizzazione il conduttore debba essere sfrattato secondo le regole ordinarie, onde non trovarsi in una situazione più svantaggiosa rispetto a quella del conduttore che ha stipulato con un locatore non vittima di pignoramento, situazione di cui il conduttore non è assolutamente responsabile.
Invece l'art. 586 c.p.c., al comma 2, stabilisce che il decreto di trasferimento del bene immobile pignorato è anche titolo esecutivo per il rilascio e quindi utilizzabile in danno del conduttore alla stregua di una convalida di sfratto.
In tale senso il Tribunale di Torino, con ordinanza 1.4.09 (R.G. nー3524/09,inedita).
Assolutamente non convincente appare l'argomentazione secondo cui in assenza di tacita riconduzione il decreto di trasferimento sarebbe utilizzabile quale titolo esecutivo anche in danno del conduttore di alloggio in forza di contratto stipulato (e registrato) anteriormente al pignoramento. Come detto il conduttore che abbia stipulato con un locatore poi vittima di pignoramento risulta infatti subordinato ad un procedimento di rilascio rispetto al quale non ha né possibilità di contraddire né tanto meno modo di far valere eventuali vizi del contratto o comunque questioni che possono il qualche modo influire sulla sua durata ed eventualmente postergare il termine di scadenza. Ciò pare integrare un'ipotesi di illegittimità costituzionale dell'art. 586 c.p.c., comma 2, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., questione sollevata nel citato procedimento e sbrigativamente risolta dal Tribunale attraverso un ultroneo riferimento all'art. 560 c.p.c., comma 2. Richiama il Tribunale la giurisprudenza della Cassazione (sez. IIIー, n. 26238/ 07 in Mass. Giust. Civ., 2007, 12) secondo cui “ ...la peculiare funzione del pignoramento nell'ambito del processo di esecuzione giustifica la particolarità della sua disciplina...”.
Pare invece poco corretto e contrario ad un'interpretazione costituzionalmente orientata (ormai sempre meno di moda!) far prevalere il diritto di credito sul ben più rilevante diritto alla casa.
Ma forse quello che vien fatto prevalere è il diritto di proprietà dell'aggiudicatario, il che è anche peggio...

Alessio Ariotto, Retelegale Torino
domenica 20 dicembre 2009
L'art, 28 comma 1 del D.Lgs. n° 81/08 ( Attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) stabilisce che “ La valutazione di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonche' nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell'accordo europeo dell'8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonche' quelli connessi alle differenze di genere, all'età, alla provenienza da altri Paesi”.
La norma contiene un richiamo esplicito (in gergo dicesi “rinvio recettizio”) ad una fonte esterna, individuata in un accordo europeo dell'8.10.04, che si occupa di un particolare tipo di rischio lavorativo, definito – ovviamente con terminologia mutuata dalla medicina - “stress lavoro- correlato”.
Questo rinvio introduce quindi nell'ordinamento italiano una fonte – di formazione negoziale in quanto trattasi appunto di accordo “europeo” ossia intervenuto fra soggetti di rilevanza comunitaria, poi vedremo chi e come – con la funzione di specificare un rischio lavorativo ritenuto evidentemente meritevole di particolare attenzione: il legislatore ha infatti collocato i rischi da stress “lavoro- correlato” fra i rischi definiti espressamente “particolari”.
Anche in cosa consista la particolarità del rischio da stress “lavoro- correlato” emergerà da questa breve trattazione.
L'accordo in parola è stato recepito in Italia – secondo quanto stabilito dall'accordo europeo stesso che quindi, usando un famoso brocardo “se la canta e se la suona” - con accordo interconfederale 9.6.08 fra le organizzazioni dei datori di lavoro e i tre sindacati concertativi. In esso è riportata la traduzione autentica e giuridicamente valida dell'accordo europeo.
La sola lettura piana del testo è di per sé fonte di divertimento, se non si trattasse di argomento serissimo. L'art. 1 infatti esordisce affermando che “lo stress lavoro- correlato è stato individuato a livello internazionale, europeo e nazionale come oggetto di preoccupazione sia per i datori di lavoro che per i lavoratori”. E' vero, non è uno scherzo.
Tale “preoccupazione” (e quando a livello europeo sorgono preoccupazioni è lecito preoccuparsi) ha indotto le parti sociali (sempre loro) ad introdurre la questione nel programma di Dialogo Sociale 2003- 2005 (si tenga conto che l'accordo europeo era del 2004, mentre il recepimento in Italia è del 2008, quindi nel frattempo la discussione fra le parti sociali dovrebbe essersi esaurita, ma evidentemente alle nostre parti sociali è sfuggito).
Il Dialogo Sociale, come ormai chi si occupa di lavoro dovrebbe sapere, è l'evoluzione in peggio della concertazione: si discute dei problemi del lavoro e poi si risolvono cercando di far meno danno possibile ai profitti delle imprese.
In questo ambito, come vedremo, i dialoghi sullo stress “lavoro- correlato”, potrebbero riservare interessanti sorprese.
Rimandando l'analisi dettagliata dell'accordo ad altra sede, merita richiamare alcuni passaggi significativi.
All'art.2 (finalità) comma 2, si afferma che obiettivo dell'accordo non è quello di attribuire la responsabilità dello stress all'individuo ma di offrire a datori di lavoro e lavoratori un quadro di riferimento per individuare e prevenire o gestire problemi di stress lavoro- correlato.
Al comma 3, ancora più chiaramente, si dice che “le parti sociali europee, riconoscendo che le molestie e la violenza sul posto di lavoro sono potenziali fattori di stress lavoro- correlato, verificheranno nel programma di lavoro del Dialogo Sociale 2003- 2005, la possibilità di negoziare uno specifico accordo su tali temi. Pertanto il presente accordo non concerne la violenza, le molestie e lo stress post- traumatico”.
La traduzione della norma citata è evidente: ne parleremo ma non risolveremo il problema, ma soprattutto che nessuno si azzardi a coinvolgere la problematica dello stress lavoro- correlato con il dramma delle condizioni di lavoro degradanti, con lo sfruttamento e la demoralizzazione dei lavoratori, con gli abusi e con tutto ciò che è contra legem. L'accordo non ne parla né ne vuole parlare.
Ma allora, di cosa stiamo parlando? L'impressione è che le parti sociali europee (più precisamente CES, ossia i sindacati europei, UNICE, la confindustria, UEAPME, artigiani, e CEEP, partecipate) abbiano steso un cordone sanitario attorno ai luoghi di lavoro in maniera da impedire il proliferare delle vertenze per stress lavorativo e circoscriverle a quei casi – appunto la violenza, le molestie e i traumi – ove vi è una correlazione diretta fra stress ed evento vietato. Prima vittima di questo modo di ragionare è la personalità morale del lavoratore – tutelata dalla Costituzione e dall'art. 2087 c.c. - che è pregiudicata non solo dai casi di violazione di norme penali (come appunto in presenza di violenza, molestia o trauma) ma anche - e forse soprattutto - dal sistema stesso di produzione (prima fordista e ora...post fordista) che aliena l'individuo e lo espone al rischio dello stress e con esso a gravi conseguenze sociali quali le diverse forme di dipendenza (droga, alcool, gioco) spingendolo verso condizioni sempre più border- line fino all'autoannullamento o al suicidio (più raramente alla presa di coscienza e alla reazione, magari militante).
L'art. 3 – che è un condensato di psicologia produttivistica - definisce lo stress lavoro- correlato come l'inadeguatezza di taluni a rispondere alle richieste e alle aspettative riposte in loro. Evidenzia come l'individuo sia in grado di sostenere una esposizione di breve durata alla tensione, ma che non tutti reagiscono alla stessa maniera (Lapalisse, tanto per cambiare). Sottolinea come lo stress generato fuori dall'ambiente di lavoro posso influire sull'efficienza del lavoratore (ma il contrario, ossia che lo stress lavorativo influenzi sicuramente le condizioni di vita fuori dall'ambiente di lavoro nemmeno viene considerato). Infine individua nel contenuto del lavoro, nella sua gestione, nell'ambiente e nella comunicazione possibili fonti di stress.
L'art. 4 segnala alcuni campanelli d'allarme che, lungi dal costituire condizioni patologiche dell'ambiente di lavoro sarebbero invece sintomo di stress...dei lavoratori: assenteismo, notevole rotazione (!), conflitti interpersonali, lamentele. Dunque chi non accetta le condizioni è stressato, chi non si adegua è stressato. Avendo così individuato la fonte occorrerà intervenire per prevenire, eliminare o ridurre il problema. Quindi, via i disturbatori.
In sintesi l'approccio al problema del disagio lavorativo (o più correttamente dell'alienazione) è totalmente produttivistico e psicologico, con una marcata individualizzazione della procedura sia di monitoraggio del problema che di intervento successivo, che si configura come una vera e propria cura nei confronti del lavoratore malato di stress.
In conclusione il datore di lavoro che farà un buon piano anti-stress sarà al riparo da qualunque vertenza, avendo in precedenza detto...che c'era quel rischio e ciò col beneplacito dei sindacati concertativi (e probabilmente sotto l'egida degli Enti Paritetici veri cavalli di troia del neocorporativismo).
Il passo verso la certificazione anticipata della sicurezza del luogo di lavoro è breve!
L'inserimento di quest'accordo europeo – sottoscritto fra organismi privi di qualunque legittimazione democratica quali sono appunto le organizzazioni transnazionali dei lavoratori e dei datori di lavoro – introduce nel nostro ordinamento un ulteriore strumento di sopraffazione della coscienza di classe dei lavoratori, mentre i datori di lavoro la loro coscienza di classe la mantengono ben salda e altrettanto efficacemente portano avanti la lotta di classe.
Con invidiabili risultati anche in tempo di crisi. Almeno in Italia.

Alessio Ariotto, Retelegale Torino

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